La natura umana è da sempre condizionata da un qualcosa
indipendente dalla propria volontà, l’esistenza dei limiti.
I limiti sono quel qualcosa che ci permettono di distinguere
i semplici esseri umani dai fuoriclasse, quelli che i limiti non si limitano a
riconoscerli, ma li affrontano con spavalderia e li superano. Hanno proprio una
predisposizione naturale nel farlo, non c’è niente da fare. E non importa
quanto “gli altri” provino ad emularli, non ci riusciranno mai.
C’è chi lo chiama “x-factor”, io preferisco chiamarlo talento.
Applicando questa mia riflessione al mondo del calcio, il
risultato è facilmente visibile. Ci sono calciatori in grado di vincere le
partite da soli, quelli nati con un qualcosa di particolare che, coltivato a
dovere nel tempo, li porta ad essere migliori degli altri. Dei ,volgarmente
detti, gregari. Quelli però senza i
quali sarebbe impossibile riconoscere i fuoriclasse, appunto.
Ed ovviamente la stessa riflessione la si può applicare agli
allenatori. Ognuno ha il proprio modo di intendere il calcio, ognuno ha il
proprio schema di riferimento con il quale pensa di poter far giocare al meglio
la propria squadra, ognuno ha il proprio modo di vivere le partite, ognuno ha
il proprio modo di relazionarsi con i media e con i propri calciatori. Ma non
tutti garantiscono il risultato finale.
Perché se esiste la figura dell’allenatore un motivo ci dovrà
pur essere. Altrimenti prendiamo una squadra a caso, con uno sceicco che ha una
disponibilità economica senza eguali, la imbottiamo di nomi altisonanti e la
vittoria arriverà in automatico. Proprio come avvenuto per il City, dove a
fronte di una spesa di centinaia di milioni di euro negli ultimi 5 anni i
risultati sono stati a dir poco esaltanti: uno scudetto, una coppa di lega, una
F.A Cup e ben due cocenti e clamorose eliminazioni dai gironi di Champions
League nelle ultime due edizioni. E c’è chi continua a sostenere che il buon
Mancini sia un buon allenatore!
Dicevamo, a qualcosa serviranno pur questi allenatori.
Servono in quanto straordinari comunicatori e in quanto portatori di carica
agonistica ai propri calciatori, oltre che di nozioni tattiche. Maestro in
questo è senza dubbio Walter Mazzarri, autore di straordinarie annate
nell’ultimo decennio del nostro campionato. Su tutte, l’indimenticabile
salvezza della Reggina nel campionato post calciopoli, nonostante una clamorosa
penalizzazione iniziale di 11 punti. Da ricordare senz’altro anche quello che è
riuscito a fare negli ultimi 3 anni abbondanti a Napoli, piazza esigente, dove
pian piano ha posto le basi con il suo 3-5-2 per la costruzione di una squadra
che di anno in anno è cresciuta per ciò che concerne i risultati ottenuti.
Apice lo è stata la stagione scorsa, con una sfortunata partecipazione alla
Champions, interrotta dal Chelsea,poi vincitrice del torneo, dopo uno scontro
francamente rocambolesco, e con la vittoria della Coppa Italia scapito della Juventus.
Ma, come già accennato prima, la natura umana deve vivere
con l’angoscia della presenza di questi limiti.
Che nel caso specifico dell’allenatore toscano è quello di
non poter raggiungere più di quanto abbia fatto fino ad oggi. E la partita di
ieri ne è la dimostrazione, non solo per quanto visto in campo con una squadra
che, suscitando anche evidente malumore tra i propri sostenitori, negli ultimi
15 minuti preferiva non rischiar nulla e prendersi un punto piuttosto che
rischiare di perderla o di vincerla. Ma anche per il modo di prendere questo
pareggio, millantando supremazie oggettivamente discutibili della propria
squadra anche in momenti nei quali era palese la difficoltà dei padroni di casa
di reggere la pressione di una partita così importante.
Atteggiamento più di uno che ricerca consensi che di uno
effettivamente convinto di quello che stesse dicendo. O meglio,modo di fare di
una persona non abituata a gestire queste situazioni.
Perché ci sono allenatori che ottengono il massimo in
squadre che lottano ogni anno fino all’ultima per non retrocedere in serie
inferiori, quelli capaci di guidare squadre che pervengono con calma alla
salvezza, quelli che riescono a portare la propria squadra in Europa.
E poi ci sono quelli che vincono. E non vincono per fortuna,
sia chiaro.
Perché quella conta si, ma nel mondo (non solo quello del
calcio) solo fino ad un certo punto. E lo si dimostra confermandosi. Sta tutto
nella voglia di vittoria che uno ha dentro, voglia che dimostra dal primo minuto
del primo allenamento settimanale fino all’ultimo secondo della conferenza
stampa post partita.
Perché vincere può capitare a tutti, ma saper vincere è roba
da pochi.
È per gente che fa
dell’abnegazione il proprio stile di vita, di gente che non ha paura di
professare la propria filosofia anche se è alle prime armi in serie A, di gente
che riesce ad ottenere il massimo da calciatori che in altri contesti hanno
reso in modo “normale”, di gente che non ha paura di far giocare calciatori
meno blasonati di altri anche in contesti importanti, di gente che riesce a
sopperire a carenze tecniche nell’organico con il ricorso a clamorose iniezioni
di carica e spirito di gruppo.
Perché, alla fine, ha sempre ragione lui.
Almeno da un anno e mezzo a questa parte.