domenica 3 marzo 2013

VINCERE E’ L’UNICA COSA CHE CONT..


La natura umana è da sempre condizionata da un qualcosa indipendente dalla propria volontà, l’esistenza dei limiti.
I limiti sono quel qualcosa che ci permettono di distinguere i semplici esseri umani dai fuoriclasse, quelli che i limiti non si limitano a riconoscerli, ma li affrontano con spavalderia e li superano. Hanno proprio una predisposizione naturale nel farlo, non c’è niente da fare. E non importa quanto “gli altri” provino ad emularli, non ci riusciranno mai.
C’è chi lo chiama “x-factor”,  io preferisco chiamarlo talento.
Applicando questa mia riflessione al mondo del calcio, il risultato è facilmente visibile. Ci sono calciatori in grado di vincere le partite da soli, quelli nati con un qualcosa di particolare che, coltivato a dovere nel tempo, li porta ad essere migliori degli altri. Dei ,volgarmente detti, gregari.  Quelli però senza i quali sarebbe impossibile riconoscere i fuoriclasse, appunto.
Ed ovviamente la stessa riflessione la si può applicare agli allenatori. Ognuno ha il proprio modo di intendere il calcio, ognuno ha il proprio schema di riferimento con il quale pensa di poter far giocare al meglio la propria squadra, ognuno ha il proprio modo di vivere le partite, ognuno ha il proprio modo di relazionarsi con i media e con i propri calciatori. Ma non tutti garantiscono il risultato finale.
Perché se esiste la figura dell’allenatore un motivo ci dovrà pur essere. Altrimenti prendiamo una squadra a caso, con uno sceicco che ha una disponibilità economica senza eguali, la imbottiamo di nomi altisonanti e la vittoria arriverà in automatico. Proprio come avvenuto per il City, dove a fronte di una spesa di centinaia di milioni di euro negli ultimi 5 anni i risultati sono stati a dir poco esaltanti: uno scudetto, una coppa di lega, una F.A Cup e ben due cocenti e clamorose eliminazioni dai gironi di Champions League nelle ultime due edizioni. E c’è chi continua a sostenere che il buon Mancini sia un buon allenatore!
Dicevamo, a qualcosa serviranno pur questi allenatori. Servono in quanto straordinari comunicatori e in quanto portatori di carica agonistica ai propri calciatori, oltre che di nozioni tattiche. Maestro in questo è senza dubbio Walter Mazzarri, autore di straordinarie annate nell’ultimo decennio del nostro campionato. Su tutte, l’indimenticabile salvezza della Reggina nel campionato post calciopoli, nonostante una clamorosa penalizzazione iniziale di 11 punti. Da ricordare senz’altro anche quello che è riuscito a fare negli ultimi 3 anni abbondanti a Napoli, piazza esigente, dove pian piano ha posto le basi con il suo 3-5-2 per la costruzione di una squadra che di anno in anno è cresciuta per ciò che concerne i risultati ottenuti. Apice lo è stata la stagione scorsa, con una sfortunata partecipazione alla Champions, interrotta dal Chelsea,poi vincitrice del torneo, dopo uno scontro francamente rocambolesco, e con la vittoria della Coppa Italia  scapito della Juventus.
Ma, come già accennato prima, la natura umana deve vivere con l’angoscia della presenza di questi limiti.
Che nel caso specifico dell’allenatore toscano è quello di non poter raggiungere più di quanto abbia fatto fino ad oggi. E la partita di ieri ne è la dimostrazione, non solo per quanto visto in campo con una squadra che, suscitando anche evidente malumore tra i propri sostenitori, negli ultimi 15 minuti preferiva non rischiar nulla e prendersi un punto piuttosto che rischiare di perderla o di vincerla. Ma anche per il modo di prendere questo pareggio, millantando supremazie oggettivamente discutibili della propria squadra anche in momenti nei quali era palese la difficoltà dei padroni di casa di reggere la pressione di una partita così importante.
Atteggiamento più di uno che ricerca consensi che di uno effettivamente convinto di quello che stesse dicendo. O meglio,modo di fare di una persona non abituata a gestire queste situazioni.
Perché ci sono allenatori che ottengono il massimo in squadre che lottano ogni anno fino all’ultima per non retrocedere in serie inferiori, quelli capaci di guidare squadre che pervengono con calma alla salvezza, quelli che riescono a portare la propria squadra in Europa.
E poi ci sono quelli che vincono. E non vincono per fortuna, sia chiaro.
Perché quella conta si, ma nel mondo (non solo quello del calcio) solo fino ad un certo punto. E lo si dimostra confermandosi. Sta tutto nella voglia di vittoria che uno ha dentro, voglia che dimostra dal primo minuto del primo allenamento settimanale fino all’ultimo secondo della conferenza stampa post partita.
Perché vincere può capitare a tutti, ma saper vincere è roba da pochi.
È per gente che  fa dell’abnegazione il proprio stile di vita, di gente che non ha paura di professare la propria filosofia anche se è alle prime armi in serie A, di gente che riesce ad ottenere il massimo da calciatori che in altri contesti hanno reso in modo “normale”, di gente che non ha paura di far giocare calciatori meno blasonati di altri anche in contesti importanti, di gente che riesce a sopperire a carenze tecniche nell’organico con il ricorso a clamorose iniezioni di carica e spirito di gruppo.
Perché, alla fine, ha sempre ragione lui.
Almeno da un anno e mezzo a questa parte.

lunedì 24 dicembre 2012

Tormentoni


Da "Top Player" ad "Anti Juve".
Nel mezzo, 6 mesi nel quale si sono susseguite voci, opinioni, prestigio del calcio italiano in declino, volontà di vincere con il gruppo prima ancora che con il singolo giocatore, squalifiche di allenatori che a vedere i risultati non hanno influito per nulla.. anzi!
Galeotto fu il "Top Player" e chi lo inventò. Un'intera estate a discutere su quale fosse il più adatto al gioco di Conte, quello con il miglior rapporto qualità-prezzo, quello che garantisse davvero il salto di qualità. In principio fu Van Persie. Poi, Drogba. Sarà Berbatov quello giusto? Macchè, dalla Danimarca con furore: Nicklas Bendtner.
Nel frattempo il campionato comincia ad emettere i primi verdetti: il Milan senza Ibra e T.Silva ha un inizio di campionato traumatico, la Roma fa fatica ad applicare i teoremi zemaniani, il Napoli dimostra di aver acquisito quella giusta maturità per competere tranquillamente per le posizioni che contano, e la Juve di Carrera prima, e di Alessio poi, sembra un rullo compressore.
Ed è qui che molte menti (poco)pensanti cominciano subito ad elaborare il nuovo tormentone: chi può davvero competere per il primo posto con i bianconeri?
Insomma, chi è l' "anti juve"?
Etichetta che in molti hanno dimostrato di non riuscire o di non voler proprio portare, che ha prodotto un solo risultato quando manca una sola giornata alla fine del girone d'andata: Juventus prima a +8 sulla Lazio, +9 su Inter e Fiorentina, + 10 sul Napoli ("+8 sul campo", a dirla tutta), + 12 sulla Roma.
Proviamo a cedere anche noi alla tentazione di rispondere alla domanda che si pongono tutti.
"Può essere la Lazio l'anti Juve?" Si, perchè ha in Petkovic una delle più belle rivelazioni del nostro calcio, portando una squadra identica a quella dello scorso anno (con l'aggiunta dei soli Ciani ed Ederson) a lottare quantomeno per un posto in Champions proponendo un calcio molto propositivo che sfocia nella concretezza del miglior attaccante del nostro campionato. No, perchè ha gli impegni del giovedì in Europa League , e perchè quando Klose deve tirare il fiato i biancocelesti fanno fatica a sbloccare il risultato (senza Klose dal 1°minuto, la Lazio non è andata a segno in questo campionato)
"Può essere l'Inter l'anti Juve?" Si, perchè Stramaccioni ha dimostrato spensieratezza[cit.] e varietà di moduli, riuscendo tra l'altro ad essere il primo ad espugnare lo Juventus Stadium. No, perchè a centrocampo è clamorosa la mancanza di un regista che prenda in mano le redini della squadra e le permette di gestire meglio i risultati, e perchè gli impegni del giovedì sera difficilmente verranno trattati con sufficienza.
"Può essere la Fiorentina l'anti Juve?" Si, perchè Montella è davvero un predestinato, un signore prima ancora che un allenatore, uno che ha avuto anche una mano dalla società con acquisti mirati, uno che può godere dell'estro di Jovetic e della rinascita sportiva di Toni, e perchè ha la settimana piena per preparare ogni partita. No, perchè la società si era programmata un ritorno ai vertici della classifica in tempi brevi, ma non a competere già da quest'anno per il primato.
"Può essere la Roma l'anti Juve?" Si, perchè il gioco zemaniano con i suoi pregi offensivi è abbondantemente noto ai più, e la possibilità di scegliere in attacco tra Totti, Osvaldo, Destro, Lamela e Pjanic non ce l'hanno tutti quest'anno. No, perchè non è possibile perdere in casa 2-3 dopo essere passati in vantaggio 2-0, perchè non è possibile prendere 3 gol in soli 19 minuti (anche se di fronte hai un'affamatissima Juve).
“Chi è l’anti Juve?”
Che ognuno scelga il proprio cavallo prima che cominci il girone di ritorno, se permettete io scelgo il mio: la Juventus stessa. Perché con un allenatore assetato di vittoria così nessuna partita verrà trascurata; perché con un’intensità senza eguali in Italia nessuna squadra può tenerle il passo per 90 e passa minuti; perché quest’anno riesce a vincere 12 partite su 12 contro le “piccole” invertendo il trend rispetto allo scorso anno; perché 94 punti in un anno solare non li avevano mai fatti nessuno in Italia, neanche la Juventus di Capello con in campo 2 palloni d’oro e l’Inter di Mancini del record di vittorie consecutive in Italia.
Buon girone di ritorno a tutti, e che vinca la migliore. Sul campo.

lunedì 19 novembre 2012

I Consigliati: Hugo Cabret - Un Omaggio a George Melies


Un ringraziamento a chi il cinema l'ha creato da parte di chi il cinema, adesso, lo fa; un elogio di un artista innovatore al padre degli innovatori; un tributo di Martin Scorsese a George Mèlies attraverso i 127 minuti di "Hugo Cabret".
Il piccolo Hugo , interpretato da Asa Butterfield, è un orfano che vive nella stazione ferroviaria di Montparnasse nella Parigi degli anni '30, occupandosi dei meccanismi degli orologi e tentando giorno dopo giorno di riparare un misterioso automa, ultimo e unico legame con suo padre, morto anni prima in un incendio. Grazie all'incontro con Isabelle, eccentrica ragazzina appassionata di libri d'avventura, Hugo riesce ad aggiustare l'automa e a scoprire cosa nasconde, entrando in contatto con George Mèlies, illusionista ed autore cinematografico dei primi anni del '900 che, considerando il suo cinema ormai superato e dimenticato, si era finto morto in guerra.  Hugo, nel suo disperato tentativo di riparare il marchingegno lasciatogli da suo padre, riuscirà ad "aggiustare" anche il cuore di Mèlies, portandolo nuovamente a dare vita ai sogni così come faceva nelle sue pellicole.
A fare da contorno alla vicenda ci sono i personaggi che popolano la stazione, l'ispettore ferroviario zoppo che dà la caccia agli orfani che girovagano nella Gare Montparnasse, segretamente innamorato della fioraia,la  signorina Lisette, il timido e impacciato Monsieur Frick che tenta di conquistare Madame Emile nonostante l'evidente dissapunto del suo bassotto Schlitze,il libraio interpretato da Christopher Lee , e soprattutto Mama Jeanne, compagna di George Méliès e interprete della maggiorparte dei suo film. La sceneggiatura firmata da Dante Ferretti ( all'ennessima collaborazione con Scorsese e già sceneggiatore per Tim Burton, Fellini, Comencini,Pasolini, Scola, Bellocchio,Terry Gilliam, solo per citarne alcuni) e Francesca Lo Schiavo ( "La voce della Luna", "The Aviator" e "Sweeney Todd" ) dimostra ancora una volta la capacità narrativa e l'attenzione al dettaglio che caratterizzano solo i grandi autori. Nulla è lasciato al caso, tutto è inserito perfettamente nella vicenda, senza sbavature nè momenti fini a se stessi, a confezionare una narrazione fluida e coinvolgente, scorrevole e divertente.

"Hugo Cabret" é troppe cose in una sola, è sapienza registica e perfezione tecnica, avventura e sogno, favola matura ed elogio del cinema, è commedia e azione, fantasia e realtà,   tutti insieme, chiusi in una scatola sigillata ed agitata con forza, dando vita a qualcosa di magico ed indefinito, da cui spicca in maniere dirompente e prepotente l'amore di Scorsese per il suo lavoro. Il ringraziamento del regista a Méliès e al cinema del passato è lampante in molti momenti, dalle locandine di Chaplin e Buster Keaton al nome del cagnolino( Schlitze, come uno dei protagonisti di "Freaks"), da Harold Lloyd ai Fratelli Lumiere. E se proprio ai Lumiere si deve l'invenzione vera e propria del cinema, molti ritengono Méliès il vero padre della settima arte, il primo ad aver capito le vere potenzialità della macchina da presa, la sua capacità di rendere reali i sogni, mescolando alla perfezione il talento cinematografico e le straordinaria abilità di illusionista. Il cineasta francese è il fondatore del cinema come lo conosciamo noi, capace di trasformare in concrete l'emozione e l'immaginazione, riuscendo a guardare al di là della mera innovazione tecnica e meccanica creata dai Lumiere e spingendosi oltre il limite del reale, valicando dei confini che nessuno si sarebbe sognato di superare, tutti troppo concentrati da queste strane "fotografie animate".
Tutto questo Martin Scorsese lo sa bene e regala a George Melies "Hugo Cabret", un film che a lui sarebbe piaciuto eccome, un piccolo grande viaggio nel sogno, proprio  come faceva lui.

venerdì 9 novembre 2012

Won't get fooled again


La più trascinante band del vivo.
La fonte di ispirazione che ha permesso alla rock music made in 90’ di festeggaire la “Cool Britannia” con la nascita di un nuovo genere, il Britpop.
Che ha cambiato la concezione stessa di album, trasformandola da semplice raccolta di singoli ad opera rock.
Un singolo di protesta nella protesta.
Accattivante, grintoso e quanto mai in contro tendenza.
Che ha lanciato il guanto della sfida al falso trasformismo della società post sessantottina, per denunciare il falso mito della rivoluzione.
Basta con i convenevoli:

The Who - Won’t get fooled again

Un organo sporcato da un sintetizzatore è quanto basta per creare un’atmosfera di profondo torpore e indulgente lassismo, volta alla totale abnegazione di qualsiasi segno di vivace emozione o intensa passione. E’ un giovane che, con gli occhi a mezz’asta e la testa reclinata dal bordo del letto, preferisce poltrire tre le lenzuola che alzarsi per appiccare il mondo con il fuoco della novità; le cui membra, pur prestanti, si ribellano all’imput dell’impudente esuberanza dei suoi floridi anni: ha l’animo spoglio, dedito alla fiacca oziosità degli anziani. Ululati umani a disturbare la quiete della notte: la martellante batteria di Keith Moon ricorda indiani, drogati dai fumi sprigionati dei falò, che danzano deliranti, ed i riff furenti della Gibson di Pete Townshend capitribù prostrarsi ai piedi del totem del Cambiamento.
Roger Daltrey riesce a percepire lo spirito della composizione sin dalle prime battute: è un ingresso ruggente, temerario e violento; il timbro di voce, secco ma pulito, si impone sul suono ruvido, quasi grossolano, di Townshend, accaparrandosi il centro della scena. Ma le parole sono tutt’altro che “pulite”: è un costante incitamento alla sovversione degli ordinamenti precostituiti, all’eliminazione del marcio nel sistema (se non addirittura a quella del sistema stesso) per fondare la Nuova Troia della Resurrezione spirituale, oltre che materiale. Nella prima strofa sembra di essere catapultati nella Parigi del 14 Luglio 1789; respirare l’odore acre del sangue che cola dalla ghigliottina, essere investiti dagli insulti della folla adirata alla vista della testa penzolante del nobile di turno, agguantata salda per i capelli dalla mano del capo rivolta (“And the men who spurred us on, sit in judgement of all wrong, they decide and the shotgun sings the song”); osservare il terzo stato scagliarsi contro la Bastiglia, emblema del poter dei forti sui deboli, per restituire libertà ai prigionieri e dignità agli offesi (“We’ll be fighting in the streets, with our children at our feet”). Ma un misero barbone, accovacciato fra i suoi stracci, sorride maliziosamente e con voce irridente sghignazza: “There’s nothing in the street, looks any different to me, and the slogans are replaced, by-the-bye, and the parting on the left, is now the parting on the right, and the beards have all grown longer overnight”. “Non c’è niente che sembri diverso nelle strade, gli slogan sono stati sostituiti con altri, e coloro che erano a sinistra ora si sono spostati a destra, e le barbe sono cresciute ancora di più durante la notte”. La voce del Realismo o del sognatore pentito, che dir si voglia; una lontana eco urlante delle agitazioni popolari degli anni addietro; discorsi sepolti ma che stentano a morire, ai quali non è stato mai apposto un punto. Alle parole che trasudano passione e speranza delle prime battute, si contrappone il cinico pragmatismo delle seconde: all’astrattezza delle idee la concretezza dei fatti. Per quanto possano essere giuste le idee, le rivolte sono scatenate dagli uomini, e gli uomini erano, sono e saranno sempre vulnerabili alla corruzione una volta seduti sul trono del comando.
Qualche rapido botta e risposta fra i vari strumenti tende a ricreare sonoramente il clima che la composizione letterale descrive: un riff grintoso, ribelle e provocatorio della Gibson ringhia al fraseggio disconnesso ed incostante del sintetizzatore mentre i tamburi cedono sotto gli impetuosi colpi di Moon, quando Townshend si lancia in un ruvido assolo di chitarra (ma che comunque riesce a sviluppare una buona melodia poiché riesce ad integrarsi a pieno nell’accompagnamento musicale, terminando con lo stesso riff che gli aveva dato inizio). Ma non sarà la sua unica performance solista. Proseguendo nell’ascolto infatti, l’artista ne tenta un secondo, un semplice abbozzo, uno scarabocchio di simboli appuntati sullo spartito che si adagia supinamente fra le note che hanno aperto l’opera, senza colpo ferire.  
Ed è di nuovo profondo torpore ed indulgente lassismo. Ma qualcosa non va come previsto: lo strumento si ribella agli ordini dell’esecutore, vuole guidare e non farsi guidare; si lancia in una fuga solitaria ed anacronistica. La batteria, elettrizzata, carica l’atmosfera di energie positive, vibrazioni capaci di rompere i vetri, continue esplosioni di eccitazione: vuole cogliere l’attimo per rendere il momento unico ed irripetibile. Un tripudio di colpi inferti senza pietà sui tamburi culminano in un grido lacerante; un coltello che lacera una tela intonsa; il sole che scaccia le tenebre e i suoi mostri con i primi chiarori. Mani al cielo e gambe divaricate per il vincitore: il volto è congestionato dallo sforzo ed i muscoli tesi nel tentativo di far giungere quell’urlo anche a coloro che non possono udirlo. L’ urlo. L’ultimo urlo. Di quelli che non ti aspetti. Di quelli che fanno ribollire il sangue. Di quelli che si possono sentire una volta sola nella vita.
La restante melodia sfigura al confronto di cotanta passione, sarà meglio non parlarne per continuare a credere che il mondo posso cambiare con un urlo. Anche se, forse, milioni di urla qualcosa possono.

Tutto il resto è noia.

Griffy the Cooper

lunedì 1 ottobre 2012

Duri a morire


1979.
No, per carità, non si tratta del numero di palle gol confezionate dalla Juventus sabato sera.
Ma di un annata, che in questo week si è rivelata estremamente prolifica: ben 4 primi marcatori tra sabato e domenica sono venuti alla luce 33 anni fa, e considerando l'unico 0-0 di giornata in quel di Udine significa quasi il 50% delle prima esultanze. Pirlo, Terlizzi, Miccoli, Milito. Nell'anno zero del calcio italiano, così economicamente lontano dagli altri principali campionati europei, quei giovani di belle speranze che dovevano brillare nel firmamento della nostra massima serie stanno latitando, merito anche degli over 30 così duri a morire.
Miccoli, non proprio al centro del progetto nelle prime giornate, si prende letteralmente la squadra sulle spalle e la conduce alla prima gioia stagionale, con quel gol di puro istinto da 40 metri che sembra voler allontanare tutti i cattivi pensieri su questo Palermo non proprio esaltante.
Milito si conferma attaccante meraviglioso, quello stop con annessa sassata al volo che si stampa sulla traversa avrebbe meritato sicuramente miglior fortuna.
Gilardino sembra essere ritornato indietro a quando di anni ne aveva poco più di 20 e faceva sognare Parma, perchè proprio non ne vuol sapere di smetterla di segnare.
Bianchi (per la verità ancora 29enne) diventa il 10° più prolifico di sempre della storia del Torino grazie alla doppietta contro l'Atalanta e si riaffaccia prepotentemente anche per la classifica marcatori, attualmente dominata da quel Edinson Cavani che si conferma il più forte e completo attaccante che il campionato possa vantare.
Campionato livellato evidentemente verso una mediocrità generale con rari picchi di strapotere collettivo ed individuale che lascia ampi spazi alle sorprese e ai baldi giovani per crescere in serenità, imparando da quei più navigati colleghi che proprio non ne vogliono sapere di uscire di scena.
Ma che devono stare molto attenti perchè c'è chi tutta questa voglia di crescere con calma non ce l'ha: per informazioni chiedere a Florenzi ed El Shaarawy, uniche note positive al momento di un campionato fallimentare di Roma e Milan.


Stumpanti

sabato 29 settembre 2012

Consigliati : "Inception"


Inception

E' risaputo che le pellicole di Christopher Nolan non sono di facile lettura. Il regista di "Memento","The Prestige" e de "Il cavaliere oscuro" ci ha abitutato a vicende labirintiche e ha portato la nostra mente a ragionamenti contorti e cavillosi, ma mai ci saremmo aspettati che si spingesse a descrivere un viaggio all'interno del mondo onirico,dove i pensieri sembrano così intensi e fondati da apparire reali. Don Cobb(Leonardo Di Caprio) è un ladro di sogni, di idee, di pensieri. Sfrutta il sonno per intrufolarsi nella testa delle persone e sottrarre loro informazioni importanti. Un giorno gli viene proposto quello che viene chiamato "innesto" ; l'idea non deve essere rubata ma impiantata nel cervello del soggetto, che deve convincersi che quel pensiero sia profondamente personale. Cobb, insieme al suo socio Arthur(Joseph Gordon-Levitt), mette insieme un gruppo di indagatori degli angoli più profondi della mente umana. Eames(Tom Hardy) è un falsario,che può cambiare aspetto all'interno dei sogno, Yusuf(Dileep Rao) un chimico, capace di creare dei potenti anestetici e Arianna(Ellen Page) è un architetto, creatrice del mondo fantastico che si forma magicamente nella testa della vittima e all'interno del quale si muovono i protagonisti. Il limite tra mondo reale e mondo onirico è talmente evanescente e labile che distinguere i due livelli diventa sempre più difficile man mano che i fatti scorrono. Christopher Nolan dirige un'opera coinvolgente fondata su una sceneggiatura intrigante,frutto di dieci anni di lavoro, e dimostra ancora una volta un'abilità e un'intelligenza registica che lo collocano di diritto tra i più grandi registi contemporanei. "Inception" possiede un ritmo narrativo incalzante e senza alcuna sosta che tiene lo spettatore letteralmente "incollato" alla poltrona per due ore e mezza; ritmo accompagnato da una colonna sonora incessante (firmata Hans Zimmer) che aumenta sempre di più di intensità dall'inizio alla fine, fondamentale per catturare l'attenzione del pubblico. L'insieme di sapienza registica, musiche coinvolgenti, ritmo crescente, sceneggiatura brillante e effetti speciali assolutamente spettacolari fa di "Inception" un film assolutamente unico nel suo genere che tutti dovrebbero vedere. "Qual'è il parassita più resistente? Un'idea, una volta che si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla..." dice Don Cobb all'inizio del film; attraverso questo breve concetto Nolan riesce già a insinuarsi nella nostra testa proprio come Cobb, solo che,a differenza sua, lo fa mentre siamo pienamente coscienti.

Quando il gioco latita..

Frenata bianconera? Resurrezione milanese? Sogno napoletano? Crisi mistica giallorossa?
Tutto comincia così: martedì sera, neanche si trattasse di una partita di Champions League, stadio esaurito, pubblico rumoroso e caloroso, tensione a mille, e giocatori stimolati a giocarsi la partita della vita. Così è stato: Fiorentina quasi perfetta, corta e mai scoperta, ben diretta dal duo fantasia Pizarro - Borja Valero, che non disdegna affatto pericolose sortite offensive e che recrimina per la clamorosa traversa di Jovetic e per la mira imprecisa di Ljajic a fine 1°tempo. Dal canto suo Juventus timida, come forse la si è vista solo a Milano l'anno scorso contro il Milan, che ha avuto l'unico merito di non affondare e di contenere al meglio una Fiorentina in serata di grazia. E con un Pirlo brutta copia di se stesso, passato da magico direttore d'orchestra ad essere umano, addirittura sostituito dal interessante Pogba che tanto ricorda Patrick Vieira. Risultato: partita intensissima tra le due squadre che fino ad ora hanno espresso il calcio migliore, punto d'oro per i bianconeri e Fiorentina che resta con l'amaro in bocca di aver giocato la partita della vita, senza portare a casa i 3 punti.
Punto d'oro che sembrava anche maturare per il Palermo in quel di Pescara, in 10 dal 35° causa espulsione di Von Bergen, e che invece capitola all' 87° grazie al primo gol in Italia di Vladimir Weiss che regala i primi 3 punti agli abruzzesi e che lascia al momento il Palermo penultimo in classifica, con un misero punticino.
Per non parlare del punto che suona come una vittoria per la Sampdoria (ancora imbattuta) di Ciro Ferrara, anch'essa in 10 per tutto il 2°tempo, che nella difficoltà trova la cattiveria, l'organizzazione giusta e l'aiuto decisivo di Stekelenburg per trovare con Munari il gol dell'1-1 e ribaltare la situazione che vedeva la Roma in vantaggio grazie al 216° gol in serie A di Francesco Totti. Roma che continua a non trovare la quadratura del cerchio, con numerose occasioni sprecate nel 1°tempo e mancanza di gestione del risultato come mostrato dei clamorosi contropiedi blucerchiati con l'uomo in meno. E a non trovare la vittoria in casa (3 partite, 2 punti).
Terreno di casa che fino a ieri era davvero stregato anche per le milanesi, ma ci ha pensato una doppietta del ventenne El Sharaawy a sfatare il tabù San Siro. Certo il gioco latita, e gli svarioni continuano ad essere all'ordine del giorno, ma mai come ieri i 3 punti erano fondamentali.
Così come lo sono stati per l'Inter, vittoriosa a Verona grazie ai gol di Alvaro Pereira e di Cassano (3° gol in campionato, proprio come Pazzini), ma che forse ha rischiato di lasciare altri punti pesanti per strada più del Milan, a causa della mancanza di un regista vero che faccia girare la squadra e di un modulo certo al quale affidarsi, merito anche di un Chievo che le sue occasioni le ha avute ma ha trovato sulla sua strada un ottimo Handanovic.
Buona prova del Catania che in casa si conferma squadra estremamente competitiva, che ribalta lo 0-1 di Maxi Moralez con i gol di Spolli e Barrientos, e del Torino, che in casa con l'Udinese non va oltre lo 0-0 a causa di 3 legni uno più clamoroso dell'altro. Non bene il Genoa, che deve ringraziare 2 rigori francamente generosi, di cui solo uno realizzato da Borriello, per poter portare a casa un punto prezioso contro un buon Parma che sta continuando a far vedere buone cose dopo il positivo finale della scorsa stagione.
Piatto forte però è stato ovviamente il match del San Paolo, dove la Lazio di Petkovic era chiamata a cercare il risultato contro un Napoli decisamente lanciato verso i vertici alti della classifica, che con una straripante vittoria balza in testa alla classifica al pari della Vecchia Signora. Partita che ruota interamente a Edinson Cavani, che con i suoi 3 gol si conferma bomber implacabile e straordinario (nonostante l'errore dal dischetto del possibile 4-0) e Miroslav Klose, che confessando  di aver segnato volutamente con la mano ha evitato una figuraccia all'ormai celebre di porta e di essere sottoposto a pubblico processo.
Si era partiti con un martedì da Champions e si è finiti con un mercoledì da serie A, con i centravanti ad essere gli unici veri protagonisti a vantaggio di una identità di gioco che molte squadre, ancora, non riescono a mostrare.

Stumpanti