La più trascinante band del vivo.
La fonte di ispirazione che ha permesso alla rock music made in 90’ di
festeggaire la “Cool Britannia” con la nascita di un nuovo genere, il Britpop.
Che ha cambiato la concezione stessa di album, trasformandola da semplice
raccolta di singoli ad opera rock.
Un singolo di protesta nella protesta.
Accattivante, grintoso e quanto mai in contro tendenza.
Che ha lanciato il guanto della sfida al falso trasformismo della
società post sessantottina, per denunciare il falso mito della rivoluzione.
Basta con i
convenevoli:
The Who - Won’t get
fooled again
Un organo sporcato da un sintetizzatore è quanto basta per creare un’atmosfera
di profondo torpore e indulgente lassismo, volta alla totale abnegazione di
qualsiasi segno di vivace emozione o intensa passione. E’ un giovane che, con
gli occhi a mezz’asta e la testa reclinata dal bordo del letto, preferisce
poltrire tre le lenzuola che alzarsi per appiccare il mondo con il fuoco della
novità; le cui membra, pur prestanti, si ribellano all’imput dell’impudente
esuberanza dei suoi floridi anni: ha l’animo spoglio, dedito alla fiacca
oziosità degli anziani. Ululati umani a disturbare la quiete della notte: la
martellante batteria di Keith Moon ricorda indiani, drogati dai fumi sprigionati
dei falò, che danzano deliranti, ed i riff furenti della Gibson di Pete Townshend
capitribù prostrarsi ai piedi del totem del Cambiamento.
Roger Daltrey riesce a percepire lo spirito della composizione sin
dalle prime battute: è un ingresso ruggente, temerario e violento; il timbro di
voce, secco ma pulito, si impone sul suono ruvido, quasi grossolano, di
Townshend, accaparrandosi il centro della scena. Ma le parole sono tutt’altro
che “pulite”: è un costante incitamento alla sovversione degli ordinamenti
precostituiti, all’eliminazione del marcio nel sistema (se non addirittura a quella del
sistema stesso) per fondare la Nuova Troia della Resurrezione spirituale, oltre
che materiale. Nella prima strofa sembra di essere catapultati nella Parigi del
14 Luglio 1789; respirare l’odore acre del sangue che cola dalla ghigliottina, essere
investiti dagli insulti della folla adirata alla vista della testa penzolante del
nobile di turno, agguantata salda per i capelli dalla mano del capo rivolta (“And the men who spurred us on, sit in judgement of all wrong, they decide and the
shotgun sings the song”); osservare il terzo stato scagliarsi contro la
Bastiglia, emblema del poter dei forti sui deboli, per restituire libertà ai
prigionieri e dignità agli offesi (“We’ll be
fighting in the streets, with our
children at our feet”). Ma un misero
barbone, accovacciato fra i suoi stracci, sorride maliziosamente e con voce
irridente sghignazza: “There’s nothing in the
street, looks any different to me,
and the slogans are replaced, by-the-bye,
and the parting on the left, is now the parting on the right, and the beards have all grown longer overnight”. “Non c’è niente che sembri diverso nelle strade, gli slogan sono stati
sostituiti con altri, e coloro che erano a sinistra ora si sono spostati a
destra, e le barbe sono cresciute ancora di più durante la notte”. La voce del
Realismo o del sognatore pentito, che dir si voglia; una lontana eco urlante delle
agitazioni popolari degli anni addietro; discorsi sepolti ma che stentano a
morire, ai quali non è stato mai apposto un punto. Alle parole che trasudano
passione e speranza delle prime battute, si contrappone il cinico pragmatismo
delle seconde: all’astrattezza delle idee la concretezza dei fatti. Per quanto
possano essere giuste le idee, le rivolte sono scatenate dagli uomini, e gli
uomini erano, sono e saranno sempre vulnerabili alla corruzione una volta
seduti sul trono del comando.
Qualche rapido botta e risposta fra i vari strumenti tende a
ricreare sonoramente il clima che la composizione letterale descrive: un riff
grintoso, ribelle e provocatorio della Gibson ringhia al fraseggio disconnesso
ed incostante del sintetizzatore mentre i tamburi cedono sotto gli impetuosi
colpi di Moon, quando Townshend si lancia in un ruvido assolo di chitarra (ma
che comunque riesce a sviluppare una buona melodia poiché riesce ad integrarsi
a pieno nell’accompagnamento musicale, terminando con lo stesso riff che gli
aveva dato inizio). Ma non sarà la sua unica performance solista. Proseguendo
nell’ascolto infatti, l’artista ne tenta un secondo, un semplice abbozzo, uno
scarabocchio di simboli appuntati sullo spartito che si adagia supinamente fra
le note che hanno aperto l’opera, senza colpo ferire.
Ed
è di nuovo profondo torpore ed indulgente lassismo. Ma qualcosa non va come
previsto: lo strumento si ribella agli ordini dell’esecutore, vuole guidare e
non farsi guidare; si lancia in una fuga solitaria ed anacronistica. La
batteria, elettrizzata, carica l’atmosfera di energie positive, vibrazioni
capaci di rompere i vetri, continue esplosioni di eccitazione: vuole cogliere
l’attimo per rendere il momento unico ed irripetibile. Un tripudio di colpi
inferti senza pietà sui tamburi culminano in un grido lacerante; un coltello
che lacera una tela intonsa; il sole che scaccia le tenebre e i suoi mostri con
i primi chiarori. Mani al cielo e gambe divaricate per il vincitore: il volto è
congestionato dallo sforzo ed i muscoli tesi nel tentativo di far giungere
quell’urlo anche a coloro che non possono udirlo. L’ urlo. L’ultimo urlo. Di
quelli che non ti aspetti. Di quelli che fanno ribollire il sangue. Di quelli
che si possono sentire una volta sola nella vita.
La
restante melodia sfigura al confronto di cotanta passione, sarà meglio non parlarne
per continuare a credere che il mondo posso cambiare con un urlo. Anche se,
forse, milioni di urla qualcosa possono.
Tutto il resto è noia.
Griffy the Cooper
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