venerdì 9 novembre 2012

Won't get fooled again


La più trascinante band del vivo.
La fonte di ispirazione che ha permesso alla rock music made in 90’ di festeggaire la “Cool Britannia” con la nascita di un nuovo genere, il Britpop.
Che ha cambiato la concezione stessa di album, trasformandola da semplice raccolta di singoli ad opera rock.
Un singolo di protesta nella protesta.
Accattivante, grintoso e quanto mai in contro tendenza.
Che ha lanciato il guanto della sfida al falso trasformismo della società post sessantottina, per denunciare il falso mito della rivoluzione.
Basta con i convenevoli:

The Who - Won’t get fooled again

Un organo sporcato da un sintetizzatore è quanto basta per creare un’atmosfera di profondo torpore e indulgente lassismo, volta alla totale abnegazione di qualsiasi segno di vivace emozione o intensa passione. E’ un giovane che, con gli occhi a mezz’asta e la testa reclinata dal bordo del letto, preferisce poltrire tre le lenzuola che alzarsi per appiccare il mondo con il fuoco della novità; le cui membra, pur prestanti, si ribellano all’imput dell’impudente esuberanza dei suoi floridi anni: ha l’animo spoglio, dedito alla fiacca oziosità degli anziani. Ululati umani a disturbare la quiete della notte: la martellante batteria di Keith Moon ricorda indiani, drogati dai fumi sprigionati dei falò, che danzano deliranti, ed i riff furenti della Gibson di Pete Townshend capitribù prostrarsi ai piedi del totem del Cambiamento.
Roger Daltrey riesce a percepire lo spirito della composizione sin dalle prime battute: è un ingresso ruggente, temerario e violento; il timbro di voce, secco ma pulito, si impone sul suono ruvido, quasi grossolano, di Townshend, accaparrandosi il centro della scena. Ma le parole sono tutt’altro che “pulite”: è un costante incitamento alla sovversione degli ordinamenti precostituiti, all’eliminazione del marcio nel sistema (se non addirittura a quella del sistema stesso) per fondare la Nuova Troia della Resurrezione spirituale, oltre che materiale. Nella prima strofa sembra di essere catapultati nella Parigi del 14 Luglio 1789; respirare l’odore acre del sangue che cola dalla ghigliottina, essere investiti dagli insulti della folla adirata alla vista della testa penzolante del nobile di turno, agguantata salda per i capelli dalla mano del capo rivolta (“And the men who spurred us on, sit in judgement of all wrong, they decide and the shotgun sings the song”); osservare il terzo stato scagliarsi contro la Bastiglia, emblema del poter dei forti sui deboli, per restituire libertà ai prigionieri e dignità agli offesi (“We’ll be fighting in the streets, with our children at our feet”). Ma un misero barbone, accovacciato fra i suoi stracci, sorride maliziosamente e con voce irridente sghignazza: “There’s nothing in the street, looks any different to me, and the slogans are replaced, by-the-bye, and the parting on the left, is now the parting on the right, and the beards have all grown longer overnight”. “Non c’è niente che sembri diverso nelle strade, gli slogan sono stati sostituiti con altri, e coloro che erano a sinistra ora si sono spostati a destra, e le barbe sono cresciute ancora di più durante la notte”. La voce del Realismo o del sognatore pentito, che dir si voglia; una lontana eco urlante delle agitazioni popolari degli anni addietro; discorsi sepolti ma che stentano a morire, ai quali non è stato mai apposto un punto. Alle parole che trasudano passione e speranza delle prime battute, si contrappone il cinico pragmatismo delle seconde: all’astrattezza delle idee la concretezza dei fatti. Per quanto possano essere giuste le idee, le rivolte sono scatenate dagli uomini, e gli uomini erano, sono e saranno sempre vulnerabili alla corruzione una volta seduti sul trono del comando.
Qualche rapido botta e risposta fra i vari strumenti tende a ricreare sonoramente il clima che la composizione letterale descrive: un riff grintoso, ribelle e provocatorio della Gibson ringhia al fraseggio disconnesso ed incostante del sintetizzatore mentre i tamburi cedono sotto gli impetuosi colpi di Moon, quando Townshend si lancia in un ruvido assolo di chitarra (ma che comunque riesce a sviluppare una buona melodia poiché riesce ad integrarsi a pieno nell’accompagnamento musicale, terminando con lo stesso riff che gli aveva dato inizio). Ma non sarà la sua unica performance solista. Proseguendo nell’ascolto infatti, l’artista ne tenta un secondo, un semplice abbozzo, uno scarabocchio di simboli appuntati sullo spartito che si adagia supinamente fra le note che hanno aperto l’opera, senza colpo ferire.  
Ed è di nuovo profondo torpore ed indulgente lassismo. Ma qualcosa non va come previsto: lo strumento si ribella agli ordini dell’esecutore, vuole guidare e non farsi guidare; si lancia in una fuga solitaria ed anacronistica. La batteria, elettrizzata, carica l’atmosfera di energie positive, vibrazioni capaci di rompere i vetri, continue esplosioni di eccitazione: vuole cogliere l’attimo per rendere il momento unico ed irripetibile. Un tripudio di colpi inferti senza pietà sui tamburi culminano in un grido lacerante; un coltello che lacera una tela intonsa; il sole che scaccia le tenebre e i suoi mostri con i primi chiarori. Mani al cielo e gambe divaricate per il vincitore: il volto è congestionato dallo sforzo ed i muscoli tesi nel tentativo di far giungere quell’urlo anche a coloro che non possono udirlo. L’ urlo. L’ultimo urlo. Di quelli che non ti aspetti. Di quelli che fanno ribollire il sangue. Di quelli che si possono sentire una volta sola nella vita.
La restante melodia sfigura al confronto di cotanta passione, sarà meglio non parlarne per continuare a credere che il mondo posso cambiare con un urlo. Anche se, forse, milioni di urla qualcosa possono.

Tutto il resto è noia.

Griffy the Cooper

Nessun commento:

Posta un commento