mercoledì 16 maggio 2012

Innuendo


Una suite dal sound dinamico e in continuo divenire.
Eclettica, versatile e mai banale.
Una band che ha sperimentato una vasta gamma di generi musicali sapendone trarre l’essenza.
Una chitarra unica e sola al mondo, costruita dal legno di un vecchio camino e suonata con una moneta scheggiata.
Una voce da far arrossire d’invidia il coro degli angeli celesti.
Basta con i convenevoli:

Queen - Innuendo

Il condannato procede solitario e claudicante tra due ali di folla: ha il volto smunto, scavato dalla fame, e la schiena coperta dei segni delle frustate. Lo scherniscono in qualsiasi maniera: insulti, sputi, percosse. E’ tirato per i polsi da una robusta fune di canapa grezza che gli recide la pelle, coprendola di piaghe. Un rivolo di sangue scivola dalla tempia sugli occhi, ma gli permette di osservare il suo destino: un cappuccio nero accanto ad un cappio che pende minaccioso. Inciampa, e la folla si aizza, ubriacata dall’ebbrezza dell’umiliazione. Si trascina sugli scalini del patibolo come carne da macello. Il boia gli infila il capo reclinato nel nodo scorsoio. Con le ultime forze rimaste solleva le pupille al cielo dischiudendo lentamente le labbra, prega Dio; poi le volge verso il proprio aguzzino che sorride perfido. Ne incrocia lo sguardo in segno di sfida: non rinnegherà mai le sue idee di uguaglianza sociale, neanche di fronte alla morte. Un tenebroso rullo di tamburi  si è nella composizione.
La scena appena descritta ricrea l’atmosfera dell’esordio musicale, mostrando la carica emotiva apportata dal dialogo fra gli strumenti: la batteria (Roger Taylor) dal ritmo funesto e letale; il sintetizzatore (John Deacon) lugubre e la chitarra (Brian May) decisa e concentrata. Ad un tratto Freddie Mercury vi irrompe accaparrandosene il centro e dando mostra di una padronanza delle corde vocali all’altezza della propria celebrità. D’ora in poi le parole saranno supportate da un contesto sonoro cangiante che tenterà di uniformarvisi; a parole di gioia corrisponderanno note di gioia, a parole di tristezza note di tristezza. La voce, enfatizzata dagli accordi di May, è lasciata libera di espandersi tutt’attorno fino al silenzio: è un sasso lanciato in uno stagno che crea cerchi concentrici sempre più ampi ma meno nitidi; cerchi che si infrangeranno sulle sponde o svaniranno nel nulla. L’autore elenca, rispettivamente nella prima e nella seconda strofa, circostanze che lo spronano a non demordere ed a “continuare a provarci” (While the sun hangs in the sky and the desert has sand/While the waves crash in the sea and meet the land/Oh yes, we’ll keep on trying), e condizioni ostili a principi di solidarietà e giustizia (While we live according to race, colour or creed/While we rule by blind madness and pure greed).
L’ambientazione muta radicalmente: si passa dal cupo al solare; dall’esecuzione del condannato ad un quadretto bucolico. L’arpeggio di May è disteso e rilassato; quasi si trovasse in uno stato di perenne atarassia; quasi fosse un elfo dei boschi che pizzica la lira dedicando un canto alla natura. Il frontman, anche in questo frangente, opta per un’analogia tra melodia e contenuto del testo: l’armoniosità del creato coincide con una smorzata e lieve apologia di se stesso (Through the sorrow all through our splendour/Don't take offence at my innuendo), per quanto canterà nei versi successivi.
Il quadretto casca per terra rompendosi in mille pezzi. Due ballerini di tango si lanciano occhiate complici ed ammiccanti dai due lati della sala da ballo. Percuotono i tacchi per terra e sbattono le mani a tempo, come in un reciproco, romantico corteggiamento: lei ha una rosa rossa stretta fra i denti, lui un fazzoletto di raso infilato nella tasca della giacca. Si sfiorano i vestiti al centro della stanza provando ognuno a catturare il profumo dell’altro. Si avvicinano ancora; adesso i movimenti non sono più sornionamente allusivi, sono espliciti: le mani si cercano a vicenda; lui fa scivolare un braccio sulla vita di lei, che gli posa una mano sul petto. Danzano così per minuti, con la Passione a tessere la trama delle loro sorti. Mentre la musica si avvia alla conclusione, le teste si inclinano lateralmente e le bocche si accostano ardenti, distanziate solo da alcuni insignificanti millimetri. Trattengono il respiro e…
Ancora un capovolgimento. La band è messa in secondo piano per permettere al cantante di confrontarsi con uno stile di ben più ampio respiro: la musica classica. Lo schema musicale proposto assegna a ciascun attore un ruolo funzionale a creare un clima solenne: a Mercury è richiesto di essere la voce solista; agli altri tre del quartetto di riporre gli strumenti per prestarsi ad una breve sezione corale; all’orchestra sinfonica di fare da accompagnamento. Il risultato non delude le aspettative perché, all’impeto di titanico egocentrismo del cantante (la causa che lo ha spinto a scusarsi in precedenza), controbatte il coro, esortando l’ascoltatore a spezzare le catene delle ali per lanciarsi in volo ed “essere libero” (You can be anything you want to be/Just turn yourself into anything you think that you could ever be/Be free with your tempo, be free, be free/Surrender your ego, be free, be free to yourself ); il tutto raccordato dal sottofondo classicheggiante.
Ma le sorprese non sono ancora finite poiché, al termine dello spaccato orchestrale, un grintoso riff introduce il tassello che completa il mosaico degli stili: l’hard rock. La scelta non è casuale: la musica deve sorreggere l’assalto sferrato nei versi appena cantati; deve sintonizzarsi sulla stessa linea d’onda per comprenderne il significato ed amplificarlo. May riesce ad amalgamare alla perfezione due esigenze contrapposte: da un lato la necessità dell’ascoltatore di essere coinvolto empaticamente, e dall’altro il proprio bisogno di sfogare sulla chitarra l’eccitazione con un fraseggio scatenato; per dirla in breve, la melodia alla tecnica. Ne risulta un assolo di straordinaria foga in cui le note attraversano celeri lo spazio; si sorpassano a vicenda esautorando l’aria di trepidazione; muoiono e risorgono dalle proprie ceneri come fenici infuocate.
Punto e a capo. Viene nuovamente riproposto il sound dell’introduzione, solamente in parte riarrangiato. E’ da segnalare ancora la voce del frontman che muore nel finale, adagiandosi fra le braccia del monologo di May; monologo che muove ad un profondo rispetto per la giunonica suite. Riepilogando il tutto, nel testo è rilevabile un forte criptismo, a cui si aggiunge l’assenza di allusione ad episodi particolari e la scarsezza di parole chiave; tutti quanti elementi che non consentono di formulare una chiara parafrasi. Considerando però alcuni indizi, come il fatto che l’autore del cantato sia Mercury e che la canzone è stata scritta nel marzo del 1989 (poco tempo dopo che la sieropositività di questi al virus dell’HIV si trasformasse in AIDS), si può tentare un’interpretazione. Secondo il mio personale parere quindi, il tema non è altro che un incoraggiamento per se stesso a tentare la “sottile linea” della guarigione, ma non solo: è anche un’esortazione ai componenti rimasti a continuare l’opera dei Queen.

Tutto il resto è noia.


Griffy the Cooper

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