Una suite dal sound dinamico e in continuo divenire.
Eclettica, versatile e mai banale.
Una band che ha sperimentato una vasta gamma di generi musicali
sapendone trarre l’essenza.
Una chitarra unica e sola al mondo, costruita dal legno di un vecchio
camino e suonata con una moneta scheggiata.
Una voce da far arrossire d’invidia il coro degli angeli celesti.
Basta con i convenevoli:
Queen - Innuendo
Il
condannato procede solitario e claudicante tra due ali di folla: ha il volto smunto,
scavato dalla fame, e la schiena coperta dei segni delle frustate. Lo
scherniscono in qualsiasi maniera: insulti, sputi, percosse. E’ tirato per i
polsi da una robusta fune di canapa grezza che gli recide la pelle, coprendola
di piaghe. Un rivolo di sangue scivola dalla tempia sugli occhi, ma gli
permette di osservare il suo destino: un cappuccio nero accanto ad un cappio
che pende minaccioso. Inciampa, e la folla si aizza, ubriacata dall’ebbrezza
dell’umiliazione. Si trascina sugli scalini del patibolo come carne da macello.
Il boia gli infila il capo reclinato nel nodo scorsoio. Con le ultime forze
rimaste solleva le pupille al cielo dischiudendo lentamente le labbra, prega Dio;
poi le volge verso il proprio aguzzino che sorride perfido. Ne incrocia lo
sguardo in segno di sfida: non rinnegherà mai le sue idee di uguaglianza
sociale, neanche di fronte alla morte. Un tenebroso rullo di tamburi si è nella composizione.
La
scena appena descritta ricrea l’atmosfera dell’esordio musicale, mostrando la
carica emotiva apportata dal dialogo fra gli strumenti: la batteria (Roger
Taylor) dal ritmo funesto e letale; il sintetizzatore (John Deacon) lugubre e
la chitarra (Brian May) decisa e concentrata. Ad un tratto Freddie Mercury vi
irrompe accaparrandosene il centro e dando mostra di una padronanza delle corde
vocali all’altezza della propria celebrità. D’ora in poi le parole saranno
supportate da un contesto sonoro cangiante che tenterà di uniformarvisi; a
parole di gioia corrisponderanno note di gioia, a parole di tristezza note di
tristezza. La voce, enfatizzata dagli accordi di May, è lasciata libera di
espandersi tutt’attorno fino al silenzio: è un sasso lanciato in uno stagno che
crea cerchi concentrici sempre più ampi ma meno nitidi; cerchi che si
infrangeranno sulle sponde o svaniranno nel nulla. L’autore elenca, rispettivamente nella prima e
nella seconda strofa, circostanze che lo
spronano a non demordere ed a “continuare a provarci” (While the sun hangs in
the sky and the desert has sand/While the waves crash in the sea and meet the
land/Oh yes, we’ll keep on trying), e condizioni ostili a principi di
solidarietà e giustizia (While we live according to race, colour or creed/While
we rule by blind madness and pure greed).
L’ambientazione
muta radicalmente: si passa dal cupo al solare; dall’esecuzione del condannato
ad un quadretto bucolico. L’arpeggio di May è disteso e rilassato; quasi si
trovasse in uno stato di perenne atarassia; quasi fosse un elfo dei boschi che
pizzica la lira dedicando un canto alla natura. Il frontman, anche in questo
frangente, opta per un’analogia tra melodia e contenuto del testo: l’armoniosità
del creato coincide con una smorzata e lieve apologia di se stesso
(Through the sorrow all through our splendour/Don't take offence at my
innuendo), per quanto canterà nei versi successivi.
Il
quadretto casca per terra rompendosi in mille pezzi. Due ballerini di tango si
lanciano occhiate complici ed ammiccanti dai due lati della sala da ballo.
Percuotono i tacchi per terra e sbattono le mani a tempo, come in un reciproco,
romantico corteggiamento: lei ha una rosa rossa stretta fra i denti, lui un
fazzoletto di raso infilato nella tasca della giacca. Si sfiorano i vestiti al
centro della stanza provando ognuno a catturare il profumo dell’altro. Si
avvicinano ancora; adesso i movimenti non sono più sornionamente allusivi, sono
espliciti: le mani si cercano a vicenda; lui fa scivolare un braccio sulla vita
di lei, che gli posa una mano sul petto. Danzano così per minuti, con la
Passione a tessere la trama delle loro sorti. Mentre la musica si avvia alla
conclusione, le teste si inclinano lateralmente e le bocche si accostano
ardenti, distanziate solo da alcuni insignificanti millimetri. Trattengono il
respiro e…
Ancora un
capovolgimento. La band è messa in secondo piano per permettere al cantante di
confrontarsi con uno stile di ben più ampio respiro: la musica classica. Lo
schema musicale proposto assegna a ciascun attore un ruolo funzionale a creare
un clima solenne: a Mercury è richiesto di essere la voce solista; agli altri
tre del quartetto di riporre gli strumenti per prestarsi ad una breve sezione
corale; all’orchestra sinfonica di fare da accompagnamento. Il risultato non
delude le aspettative perché, all’impeto di titanico egocentrismo del cantante
(la causa che lo ha spinto a scusarsi in precedenza), controbatte il coro,
esortando l’ascoltatore a spezzare le catene delle ali per lanciarsi in volo ed
“essere libero” (You can be anything you want to be/Just turn yourself into
anything you think that you could ever be/Be free with your tempo, be free, be
free/Surrender your ego, be free, be free to yourself ); il tutto raccordato
dal sottofondo classicheggiante.
Ma le sorprese
non sono ancora finite poiché, al termine dello spaccato orchestrale, un
grintoso riff introduce il tassello che completa il mosaico degli stili: l’hard
rock. La scelta non è casuale: la musica deve sorreggere l’assalto sferrato nei
versi appena cantati; deve sintonizzarsi sulla stessa linea d’onda per comprenderne
il significato ed amplificarlo. May riesce ad amalgamare alla perfezione due
esigenze contrapposte: da un lato la necessità dell’ascoltatore di essere
coinvolto empaticamente, e dall’altro il proprio bisogno di sfogare sulla
chitarra l’eccitazione con un fraseggio scatenato; per dirla in breve, la
melodia alla tecnica. Ne risulta un assolo di straordinaria foga in cui le note
attraversano celeri lo spazio; si sorpassano a vicenda esautorando l’aria di
trepidazione; muoiono e risorgono dalle proprie ceneri come fenici infuocate.
Punto e a
capo. Viene nuovamente riproposto il sound dell’introduzione, solamente in
parte riarrangiato. E’ da segnalare ancora la voce del frontman che muore nel
finale, adagiandosi fra le braccia del monologo di May; monologo che muove ad
un profondo rispetto per la giunonica suite. Riepilogando il tutto, nel
testo è rilevabile un forte criptismo, a cui si aggiunge l’assenza di allusione
ad episodi particolari e la scarsezza di parole chiave; tutti quanti elementi
che non consentono di formulare una chiara parafrasi. Considerando però alcuni
indizi, come il fatto che l’autore del cantato sia Mercury e che la canzone è
stata scritta nel marzo del 1989 (poco tempo dopo che la sieropositività di
questi al virus dell’HIV si trasformasse in AIDS), si può tentare
un’interpretazione. Secondo il mio personale parere quindi, il tema non è altro
che un incoraggiamento per se stesso a tentare la “sottile linea” della
guarigione, ma non solo: è anche un’esortazione ai componenti rimasti a
continuare l’opera dei Queen.
Tutto il
resto è noia.
Griffy
the Cooper
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